È solo alla
mezz’ora del secondo tempo di Inter – Crotone che Stefano Vecchi, a distanza di
forse vent’anni dall’ultima volta che gli era accaduto, si interroga sul senso
della sua vita. Non dà più indicazioni ai suoi da ormai un paio di minuti.
Fissa soltanto la palla che scorre sotto ai suoi occhi, maltrattata da
scarpette troppo colorate, improvvisamente scaraventata sulla fascia opposta.
Mentre è come se ipnotizzato dalla sfera color arancio, Stefano avverte una
profonda fitta allo sterno, lo stesso tipico malessere che accompagna i sensi
di colpa. Viene lentamente avvolto da un abbraccio di malinconia. Non riuscendo
a decifrare il suo vero stato d’animo, il suo inconscio gli pone una serie di
interrogativi scomodi in rapida successione.
Ma cos’hai?
Perché non sei contento? La serie A… Cazzo, la serie A! San Siro! C’è gente che
lavora in provincia tutta la vita e al massimo arriva in Eccellenza. Cosa vuoi
davvero? Cos’è, stai pareggiando col Crotone e cominci forse a sospettare che
non vali una cippa?
Vecchi strabuzza
gli occhi, scuote la testa e si sposta verso la metà campo in cui ristagna il
gioco, mantenendosi diligentemente all’interno dell’area tecnica. Si muove
cercando di sfuggire ai suoi dubbi, nel tentativo di arrestare il flusso dei
pensieri. Ma la palla l’ha appena lisciata Santon, e si spegne inesorabilmente
sul fondo. Il gioco non aiuta a distrarsi, e l’allenatore torna a rimuginare.
Non era così che
voleva andassero le cose. Non in questo modo. Stefano è fin troppo consapevole
di essere un traghettatore. La certezza che tutto finirà molto in fretta, senza
preavviso, rovina l’essenza di questi momenti. Sente di essere stato privato di
qualcosa di molto prezioso: la libertà di potersi godere appieno la sua prima
in serie A. Ora tutto è stato compromesso, in un certo senso gli hanno rovinato
la sorpresa. In più, il sospetto che questo anonimo Inter-Crotone possa essere
la sua prima ed ultima panchina in serie A pone Stefano in un limbo
inquietante: ok, è arrivato in serie A, ma ci tornerà? Se sì, quando? È solo
l’inizio, o forse la sua parabola da allenatore ha già raggiunto l’apice? Se
non avesse allenato la primavera dell’Inter in questo momento storico, se fosse
stato su una qualunque altra panchina, avrebbe potuto ancora covare il sogno di
esordire sul serio, nella massima serie. Con una squadra veramente sua, e non
un gruppo di giocatori anch’essi ben consci del fatto che nell’arco di un paio
di partite finirà questa pantomima.
Essere
traghettatori è frustrante. È l’assaggio di una pietanza che non ti verrà mai
servita, è un primo bacio dato a una donna che sai non poter amare. Catapultato
in una realtà non tua, devi provare a dare il massimo, quando tutto ciò che fai
non ha futuro. Sospeso in una dimensione atemporale, con la consapevolezza che,
una volta finito lo sporco lavoro, nel giro di un paio di mesi (se non
settimane) la gente si sarà dimenticata di te. Anche il più celebre della
categoria, Caronte, condivide l’amaro destino di Vecchi: è lui uno dei primi
personaggi a catturare l’attenzione dei lettori della Divina Commedia, ma
subito altre creature ben più mostruose e peccatori con storie molto più
accattivanti si avvicenderanno in seguito.
Ora Stefano
segue l’azione della sua squadra con lo sguardo, ma la testa è impegnata in associazioni
di idee che lo hanno portato a Dante e all’Inferno. Si alliscia la barba sul
mento e tira un profondo respiro. L’inconscio finalmente decreta:
Basta. L’unica
maniera per uscirne è recitare la tua parte. Con calma, senza inutili angosce.
Fa’ il tuo mestiere, e fallo bene.
Manca un quarto
d’ora scarso alla fine, e Stefano torna a dare indicazioni ai suoi uomini. Li
incita, li segue e valuta eventuali cambi dell’ultimo minuto. Accompagna la
manovra dei suoi, rivitalizzato da nuove forze. Ecco, ora sembra che stiano per
segnare. Una lunga azione in solitaria di un esterno, partita quasi da
centrocampo, si conclude in rete. Gol. I tifosi esultano sugli spalti, ben
felici di aver scongiurato il rischio di pareggiare col Crotone in casa, e
Vecchi con loro. A dispetto di tutto, la sua è un’esultanza sincera, spontanea.
Dispensa cinque ai collaboratori e pollici in su per i suoi giocatori. Tutti i
pensieri cupi di pochi attimi fa sono solo un lontano ricordo. Di gol ne
arrivano altri due, entrambi seguiti da grande festa da parte della panchina e
della gente, seppur l’avversario non sia dei più temibili. Il triplice fischio
sancisce la fine del match. Vecchi abbraccia tutti gli undici scesi in campo,
ha parole d’elogio per tutti. Saluta i tifosi con un cenno della mano, subito
ricambiato da un caloroso applauso della tribuna, che ha capito di avere di
fronte un valido professionista, travolto dallo stravolgersi degli eventi.
In
molto meno tempo di quanto non gli fosse riuscito vent’anni fa, Stefano Vecchi
ha ottenuto qualche risposta ai suoi perché. Ed ha capito che il senso della
vita non si cerca né alle spalle, e nemmeno all’orizzonte. È sempre davanti ai
tuoi occhi.
Francesco Grasso, 31/11/16
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