martedì 12 marzo 2019

Traghettatore



È solo alla mezz’ora del secondo tempo di Inter – Crotone che Stefano Vecchi, a distanza di forse vent’anni dall’ultima volta che gli era accaduto, si interroga sul senso della sua vita. Non dà più indicazioni ai suoi da ormai un paio di minuti. Fissa soltanto la palla che scorre sotto ai suoi occhi, maltrattata da scarpette troppo colorate, improvvisamente scaraventata sulla fascia opposta. Mentre è come se ipnotizzato dalla sfera color arancio, Stefano avverte una profonda fitta allo sterno, lo stesso tipico malessere che accompagna i sensi di colpa. Viene lentamente avvolto da un abbraccio di malinconia. Non riuscendo a decifrare il suo vero stato d’animo, il suo inconscio gli pone una serie di interrogativi scomodi in rapida successione.



Ma cos’hai? Perché non sei contento? La serie A… Cazzo, la serie A! San Siro! C’è gente che lavora in provincia tutta la vita e al massimo arriva in Eccellenza. Cosa vuoi davvero? Cos’è, stai pareggiando col Crotone e cominci forse a sospettare che non vali una cippa?






Vecchi strabuzza gli occhi, scuote la testa e si sposta verso la metà campo in cui ristagna il gioco, mantenendosi diligentemente all’interno dell’area tecnica. Si muove cercando di sfuggire ai suoi dubbi, nel tentativo di arrestare il flusso dei pensieri. Ma la palla l’ha appena lisciata Santon, e si spegne inesorabilmente sul fondo. Il gioco non aiuta a distrarsi, e l’allenatore torna a rimuginare.



Non era così che voleva andassero le cose. Non in questo modo. Stefano è fin troppo consapevole di essere un traghettatore. La certezza che tutto finirà molto in fretta, senza preavviso, rovina l’essenza di questi momenti. Sente di essere stato privato di qualcosa di molto prezioso: la libertà di potersi godere appieno la sua prima in serie A. Ora tutto è stato compromesso, in un certo senso gli hanno rovinato la sorpresa. In più, il sospetto che questo anonimo Inter-Crotone possa essere la sua prima ed ultima panchina in serie A pone Stefano in un limbo inquietante: ok, è arrivato in serie A, ma ci tornerà? Se sì, quando? È solo l’inizio, o forse la sua parabola da allenatore ha già raggiunto l’apice? Se non avesse allenato la primavera dell’Inter in questo momento storico, se fosse stato su una qualunque altra panchina, avrebbe potuto ancora covare il sogno di esordire sul serio, nella massima serie. Con una squadra veramente sua, e non un gruppo di giocatori anch’essi ben consci del fatto che nell’arco di un paio di partite finirà questa pantomima.



Essere traghettatori è frustrante. È l’assaggio di una pietanza che non ti verrà mai servita, è un primo bacio dato a una donna che sai non poter amare. Catapultato in una realtà non tua, devi provare a dare il massimo, quando tutto ciò che fai non ha futuro. Sospeso in una dimensione atemporale, con la consapevolezza che, una volta finito lo sporco lavoro, nel giro di un paio di mesi (se non settimane) la gente si sarà dimenticata di te. Anche il più celebre della categoria, Caronte, condivide l’amaro destino di Vecchi: è lui uno dei primi personaggi a catturare l’attenzione dei lettori della Divina Commedia, ma subito altre creature ben più mostruose e peccatori con storie molto più accattivanti si avvicenderanno in seguito.



Ora Stefano segue l’azione della sua squadra con lo sguardo, ma la testa è impegnata in associazioni di idee che lo hanno portato a Dante e all’Inferno. Si alliscia la barba sul mento e tira un profondo respiro. L’inconscio finalmente decreta:



Basta. L’unica maniera per uscirne è recitare la tua parte. Con calma, senza inutili angosce. Fa’ il tuo mestiere, e fallo bene.



Manca un quarto d’ora scarso alla fine, e Stefano torna a dare indicazioni ai suoi uomini. Li incita, li segue e valuta eventuali cambi dell’ultimo minuto. Accompagna la manovra dei suoi, rivitalizzato da nuove forze. Ecco, ora sembra che stiano per segnare. Una lunga azione in solitaria di un esterno, partita quasi da centrocampo, si conclude in rete. Gol. I tifosi esultano sugli spalti, ben felici di aver scongiurato il rischio di pareggiare col Crotone in casa, e Vecchi con loro. A dispetto di tutto, la sua è un’esultanza sincera, spontanea. Dispensa cinque ai collaboratori e pollici in su per i suoi giocatori. Tutti i pensieri cupi di pochi attimi fa sono solo un lontano ricordo. Di gol ne arrivano altri due, entrambi seguiti da grande festa da parte della panchina e della gente, seppur l’avversario non sia dei più temibili. Il triplice fischio sancisce la fine del match. Vecchi abbraccia tutti gli undici scesi in campo, ha parole d’elogio per tutti. Saluta i tifosi con un cenno della mano, subito ricambiato da un caloroso applauso della tribuna, che ha capito di avere di fronte un valido professionista, travolto dallo stravolgersi degli eventi.

 

In molto meno tempo di quanto non gli fosse riuscito vent’anni fa, Stefano Vecchi ha ottenuto qualche risposta ai suoi perché. Ed ha capito che il senso della vita non si cerca né alle spalle, e nemmeno all’orizzonte. È sempre davanti ai tuoi occhi.

Francesco Grasso, 31/11/16

Lontano dal cuore


Sonno. Tanto sonno. Anche un po' di ansia, in realtà. Quel classico misto di emozioni che precede un nuovo inizio, primo giorno di scuola o di lavoro che sia. Qualcosa di simile gli frullava nello stomaco da quando si era alzato, quella mattina. Già. Alzato, non svegliato: gli occhi non era mai riuscito a chiuderli, se non per pochissimo tempo, durante l'ultima notte piuttosto travagliata. Sentimenti contrastanti che non gli davano pace lo avevano fatto rigirare continuamente nel letto dell'albergo, a Ibiza. Ora non era più in vacanza. Aveva lasciato il resort di primo mattino, era stato accompagnato in aeroporto e prima delle nove era già in volo per l'Italia. Ora, seppur la poltroncina della prima classe fosse meravigliosamente comoda, non c'era alcuna chance perché potesse addormentarsi lungo la tratta.



Troppi pensieri. Il cervello lavorava, freneticamente. Un cervello fine, il suo, capace di trovare sempre la soluzione migliore in frazioni di secondo. Ne era sempre più consapevole; la sua vera forza era la mente. Capire dove la palla sia diretta prima degli altri, e quindi vincere quella continua lotta di sopravvivenza in area di rigore, che ogni domenica andava in scena e alla quale lui costantemente partecipava affamato. Adesso, tuttavia, il campo in cui la sua mente spaziava non era in erba. Era impegnato a rielaborare le tante frasi ascoltate nei giorni scorsi, a immaginare scenari futuri, a vagliare i pro e i contro delle scelte che aveva compiuto, non senza qualche difficoltà.



Cercava di ricomporre le tessere di un puzzle, che da ormai troppo tempo si era complicato. Un puzzle da centinaia di pezzi, di quelli dei quadri famosi. Un puzzle che però, con il progressivo assemblarsi dei tasselli, non stava rivelando l'immagine che lui aveva immaginato, quando aveva preso in mano lo scatolone e aveva cominciato ad assemblare. Stava venendo fuori qualcosa di inquietante. Non brutto, sia chiaro, anzi quasi affascinante. Ma nulla di più distante da un paesaggio primaverile. Il mosaico che stava nascendo, tassello dopo tassello, era ricco di ombre. Ombre lunghe, che mangiavano le pareti e i pavimenti, inglobando molti particolari che in questo modo diventavano impercettibili. Ombre che tuttavia si contrapponevano prepotentemente alla luce. Una luce stridula, non limpida, ma forte. Il contrasto tra le due anime lasciava il bomber sempre più agitato. Un quadro di De Chirico, ecco cosa stava venendo fuori.





Dubbi, incertezze e paure, tutte nascoste nelle ombre: che ne sarà di me, nel cuore di chi mi ha amato? È davvero la scelta giusta? Ma chi decide cosa sia giusto o sbagliato, in un mondo simile? Tutto intorno non c'è quasi nessuno a consigliare secondo coscienza; tutti hanno i loro conti da far tornare, e in momenti simili chi si era professato amico fraterno si divincola. Nell'ombra. E così il bomber rimane preda dei suoi sentimenti. La rabbia, per non aver vinto quanto meritasse davvero, va di pari passo con la consapevolezza di essere responsabile di ciò. Perché la sua mente, sempre pronta e determinata, lo ha abbandonato ancora una volta sotto porta. Quando in area non si deve lottare, ma ci si deve fiondare con la fame del leone. Tu per tu col portiere, nulla di più semplice e nulla di più tremendamente difficile. Lui lo sa, la mente si offusca, non c'è niente da fare, e si è annebbiata anche stavolta. Ancora una finale persa. Ed altra rabbia, perché questo sembrava davvero l'anno buono, con tutti quei palloni in fondo al sacco disseminati lungo lo stivale. La felicità di quella notte sotto la pioggia, con una città inchinata ai suoi piedi, ora sembra così lontana. Chissà se c'era spazio nell'ombra, per mettersi comodi e scrollarsi il peso delle paure dalle spalle.



Ma lui invece ha scelto la luce, pallida del meriggio. È uscito allo scoperto, e adesso è lì, esposto senza alcun riparo. E non si torna indietro. Il bagliore di una nuova avventura irradia il suo volto. Perché la luce? Il luccichio di un mondo nuovo, in cui tutto sa di successo e lustro, è ammaliante.

Ma non è certo lo scintillare delle coppe nelle bacheche ad essere attraente per uno come lui, che in una squadra di vertice ci ha già giocato. Tuffarsi nella luce è un modo come un altro per evitare di mettere a fuoco le proprie debolezze. E il bomber adesso è sereno, solo perché è riuscito ad evitare i suoi fantasmi. Non li ha uccisi, è solo che adesso non li vede. Solo pallida luce, e nient'altro. Dall'oblò vicino al suo posto i raggi arrivano sempre più intensi. L'aereo ha ormai intrapreso la fase di atterraggio. Distolta finalmente l'attenzione da questo lungo flusso di coscienza, si prepara a lasciare il velivolo.



Scende la scaletta a passi felpati, quasi come per lasciarsi ammirare dagli obiettivi, giunti lì tutti per lui. Accenna un sorriso, solleva un pollice. Ma la luce è veramente forte. È ancora mattino, il sole è alto. Gli punta direttamente nelle pupille, non riesce a tenere gli occhi aperti. A terra, un suo nuovo dirigente, munito di occhiali scuri, lo attende raggiante con una sciarpa a strisce, da porgli sul collo quanto prima. Il bomber ne intuisce i contorni, ma è sempre più stupito da quanto sia forte il bagliore che lo ha investito da quando ha lasciato l'aereo. A fatica, prosegue scalino dopo scalino. Vorrebbe coprirsi il volto, ma preferisce mantenersi al passamano. Un pensiero balena nella sua testa.



Ma non sarà troppa luce?

Francesco Grasso, 22/07/16

Travolto dalla piena, ancora una volta

Ma non è che sto sbagliando io?

Seduto in panca, lì dove oramai da mesi la gente ha un po' fatto l'occhio a vedercelo, consueto fratino sopra la tuta, gomma masticata non senza un certo nervosismo, Francesco Totti per un attimo è tentato dal rielaborare le proprie posizioni. Perché si può essere coerenti fino alla fine, ma è anche vero che prima o poi un paio di domande ce le si deve fare. E allora Totti ci pensa seriamente.
“Ma non è che sto sbagliando io?”.

Credeva che dopo l'ultima partita, quel suo tiraccio valso un prezioso punto in classifica avesse convinto una volta per tutte quell'altro. E invece niente, ancora panchina. Pure col Torino. Francesco è incazzato, ma cela bene la sua impazienza. E ora che per un attimo il suo sguardo si perde nel vuoto, dalla poltroncina coperta dal plexiglas, con la partita che sta per volgere al termine, Francesco ci prova a fare un passo indietro. Non può fare sempre lo stesso errore, provare a vederla sempre a modo suo. Potrebbe essere che abbia ragione l'altro. Dovrebbe realmente cominciare a cercare un'alternativa. Ma qui, adesso, è difficile. Anche stasera fa male, essere a pochi metri dall'immenso prato verde senza poterlo calcare con i compagni, e soprattutto vedere quel pallone rotolare, così in fretta da un piede all'altro, senza poterlo anche solo accarezzare con il collo piede. Ed ecco che Francesco la sente salire, inesorabile. La piena lo travolge. Un'onda anomala di suoni ed odori. Li percepisce forte, oggi come venti anni fa. La sfera calciata con vigore, cuoio contro cuoio, un botto sordo che non ha onomatopee ma che ogni uomo che ha messo piede in un campo conosce bene. I tacchetti che graffiano i fili d'erba. Erba, l'odore di erba bagnata, irrigata poco prima del fischio d'inizio. L'eco distorta delle urla del portiere agli uomini in barriera. Il tanfo dell'unguento del fisioterapista spalmato sulle sue cosce, che arriva a periodiche zaffate nelle sue narici. Il tessuto forato della casacca avvertito sotto le mani. Francesco è in osmosi con il calcio. La sua vita non è in tutto questo. La sua vita è tutto questo. E mentre comincia il riscaldamento, la piena sale, sempre di più. Il boato dei tifosi che si sono accorti della sua comparsa a bordo campo. I colori sgargianti dei tabelloni, della bandierina del guardialinee, delle scarpe. Il mosaico policromo delle tribune e delle curve, con le migliaia di tessere che si alternano ai vuoti dei sediolini blu. Totti è sempre più immerso da tutto questo. Ancora una volta. E allora basta, decreta una volta per tutte l'ego tottiano. Il capitano prende a due mani la sua coscienza. Le parla. Se io lo volessi, a te andrebbe? Come per consigliarla di lasciar stare tutte le parole e i progetti e le idee dei giornalisti e la società e tutto il resto. Niente calcoli, che farli adesso non serve. Se io lo volessi, a te andrebbe?

Passa qualche minuto. Totti entra. Segna il primo gol. Pareggio. Si gioca ancora. Rigore. Lo tira Totti. Gol.

In piedi, davanti la sua panca ormai vuota, essendo tutti corsi ad abbracciare il loro capitano, maglioncino e camicia, non senza lasciar trapelare dell'emozione, Luciano Spalletti ci pensa seriamente:
“Ma non è che sto sbagliando io?”


Francesco Grasso, 21/04/16 (liberi spunti da qui)


Andrea sta bene, Andrea sta male

Arriva un pallone. Sembra proprio diretto verso di te. Te lo passa un compagno. Ma non è una questione di qualità.

Una formalità, ecco cosa sono queste partite. Sei scarico. Già hai negli occhi il saluto ai tifosi per l'ultima in casa, tra meno di un mese ormai, poi la cena di squadra, forse parlerai di rinnovo, quindi le vacanze con tua moglie, magari in Sardegna, perché no. Sei incanalato nella corsia del finale di stagione, superstrada ai cui margini il paesaggio è piuttosto monotono. Non brullo, non arido, ma sempre uguale. Tutto è avvolto da quel retrogusto amaro che sa vagamente di malinconia. No, non ce la fai a vivere questo finale di stagione con l'ansia di chi sa che il meglio deve ancora venire. Perché quello di questo Giugno sarà un altro Europeo che non giocherai. Lo sai perfettamente. I casi sono due: o hai scelto il ruolo sbagliato, o hai sbagliato paese natale. Per entrare tra i pali azzurri c'è la fila da sempre. Da anni il numero uno, il campione del Mondo, di farsi da parte non ne vuole proprio sapere. E come se non bastasse, ogni anno sbuca un suo erede che ha almeno dieci anni in meno di te. Pensi spesso a tutti quegli anni da titolare nell'Under che ti avevano fatto ben sperare. Poi ti guardi intorno, e sembra che tutti ti ignorino da tempo. Ci pensi e stai male.

Ora ti stanno chiamando in causa, questa palla che sobbalza nel prato del Franchi è proprio per te, ma in un contesto più ampio è vero: si sono dimenticati delle tue parate, del tuo talento. Sarà stata una questione di qualità? Eppure il tuo mestiere l'hai sempre fatto, e bene. Mai una parola fuori posto, testa bassa e parare. Non vai in disco la sera, non fai la vita mondana, non sei sociopatico e non hai milioni di followers su Instagram. Sarà forse proprio per questo che la gente ti ignora? Cosa sia andato storto, oramai non ricordi più bene.

Questa sfera te l'hanno passata, rotola veloce, non perfetta (il campo fa un po' schifo), è tua, e la dovrai pur calciare. Non sarà certo questo pallone a cambiare l'inesorabile flusso delle cose, ma tutto sommato l'altra faccia della medaglia ti dice che stai bene. Del resto, questo passaggio non è altro che un ennesimo segnale della fiducia che la difesa ripone nei tuoi confronti. Nel suo piccolo è una consolazione, l'aver sempre trovato un ambiente in cui essere visti come un punto fermo, seppur lontano dalle luci della ribalta. Sì, un punto fermo in un microcosmo di provincia, Bergamo prima e Reggio Emilia poi. La palla è oramai di fronte a te, la vuoi calciare. Una formalità. L'ennesima, da portiere pieno di esperienza di una squadra così coriacea, che sta mettendo alle strette una grande. Una formalità.

E invece la palla l'hai goffamente accarezzata con l'interno, con troppa sicumera. Scivola alle spalle. Nulla la fermerà nella sua lenta ed inesorabile marcia verso la tua rete. Giri lo sguardo dall'altra parte, come per evitare una scena di morte cruenta al cinema. Come per distogliere l'attenzione da un amico che vomita, perché al solo guardarlo salirebbe un conato anche a te. Come per far finta che non stia realmente accadendo davanti ai tuoi occhi. Mani tra i capelli. Fissi lo stupido cartellone della Tim, stampato tutto storto solo per farlo sembrare dritto agli occhi delle telecamere.

Una formalità? O una questione di qualità? Non ricordi più bene.



Francesco Grasso, 18/04/16 (liberi spunti da qui)